MAFIA, UNA STORIA COMPARATA – Un saggio di Lucrezia Lorenzini

Un saggio di Lucrezia Lorenzini esplora il rapporto tra la “devianza organizzata” siciliana o la comunicazione

“Mafia, una storia comparata” – Ecco come ne hanno parlato la letteratura, il giornalismo e il cinema

di Francesco Bonardelli (*)

Esistono i manuali, le inchieste, i pamphlet, i resoconti sulla “mafiosità sicula”; ma in pochi, anche tra gli autorevoli studiosi della tematica specifica, si sono finora interrogati in merito alla reale incidenza dei modelli interpretativi del fenomeno sul divenire culturale, ampiamente inteso nella sua dialettica con i contesti territoriali e geografici. Tanto nella società attuale, caratterizzata da una costante dilatazione delle possibilità comunicative e quindi delle indagini conoscitive, tanto in quella dei decenni e dei secoli trascorsi, al contrario ristretta tra i limiti angusti degli àmbiti intellettuali d’élite, e quindi della spesso acritica trasmissione delle idee.

A colmare una tale lacuna, che finisce anche per penalizzare l’immagine stessa dell’isola nella sua ingiusta e frettolosa identificazione in una generica e diffusa “devianza organizzata”, provvede ora un documentato e articolato studio di Lucrezia Lorenzini, arricchito dai contributi di alcuni specialisti della materia, professionalmente coinvolti e intellettualmente impegnati. Il volume sulle “Possibilità conoscitive del fenomeno mafia in Sicilia nella letteratura e nelle relazioni Stato-società” (Rubbettino, 226 pagine, 20 euro) si avvale infatti delle collaborazioni, sotto forma d’intervista, del prefetto Giosuè Marino, già Commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, del magistrato Giuseppe Verzera, sostituto procuratore della Repubblica alla Direzione distrettuale antimafia di Messina, e dell’assessore regionale all’istruzione e alla formazione professionale, Mario Centorrino. E dei contributi in forma di saggio del giornalista Nuccio Anselmo, segretario dell’Ordine regionale di Sicilia, della docente universitaria Amelia Ioli Gigante, dello storico della Chiesa Francesco Michele Stabile, e dello storico del cinema Francesco Gulletta.

Non tanto allora la ricerca della risposta fatidica alla domanda “cos’è la mafia?”; quanto l’interrogativo parallelo, ma indipendente, di come la mafia sia stata considerata, valutata, e dunque anche letterariamente affrontata dalle origini nello Stato post-unitario fino ai tempi recenti della sua decisa e inequivocabile collocazione fuori dai margini della dinamica civile e democratica. Perché non è stata poi sempre così scontata, la connotazione negativa del fenomeno; non sempre sono stati dati per certi e incontestabili i paradigmi morali del rifiuto della violenza, della vile sopraffazione, del potere della forza di pochi sulla debolezza e la fragilità di molti.

Istruttivo dunque e mai banalmente lineare, il lungo percorso compiuto dalla Lorenzini – che insegna Letteratura e filologia siciliana nell’università di Messina – attraverso i modelli interpretativi degli scrittori, dei poeti, dei cantori; ma anche dei resocontisti, dei viaggiatori, degli osservatori ironici e disincantati dell’isola, con i suoi irrisolti drammi sociali e i suoi costanti e mai placati turbinii interiori.

Ci sono tutti: dagli autori meno conosciuti, riscoperti attraverso un lavoro di acquisizione delle fonti che di per sé qualifica la ricerca, a coloro che incarnano da tempo la passione civile dell’isola in aperto contrasto con le offensive sociali della criminalità organizzata. Allora le relazioni ottocentesche del prefetto Torelli, le prime controverse analisi linguistiche del Pitrè, i testi specialistici degli storici siciliani, il realismo di Capuana e la messinscena di Martoglio. E poi il lento avvicinarsi alle denunce esplicite del secondo dopoguerra, i capolavori di Sciascia, ma anche la dialettica tra i piani narrativi della rappresentazione del fenomeno, a partire da Camilleri, scrittore siciliano di maggior successo editoriale.

La sintesi diviene così problematica, per il contrasto evidente tra la crescente presa di coscienza sull’emergenza e la gravità del divenire e un latente ma assai rischioso sostrato di rassegnazione, in cui proprio l’arte espressiva – da sempre in prima linea nella rappresentazione di una realtà mai mediata dai compromessi – rischia di smarrire la sua essenziale connotazione e il suo intrinseco valore di sfida.

Ciò che invece emerge, in stretto legame con la realtà attuale, negli interventi degli specialisti scelti dalla curatrice a volte come emblemi stessi di un impegno profuso coraggiosamente in prima linea. Si evidenziano così le scelte di campo del prefetto Giosuè Marino, convinto assertore della necessità di un mutamento “culturale” che coinvolga tutte le classi sociali in una sorta di pacifica ma collettiva rivolta contro le oppressioni del malaffare. In sintonia con le testimonianze a volte drammatiche rese dal sostituto Giuseppe Verzera, protagonista di importanti processi alle cosche, ma anche testimone lucido e analista meticoloso degli eventi tragici su cui è stata riscritta negli ultimi decenni, assieme alla vicenda civile della lotta alla mafia, la storia dell’intera nazione. Che secondo l’assessore regionale Mario Centorrino dovrebbe maggiormente caratterizzarsi nell’attenzione costante all’istruzione e alla formazione, per conferire soprattutto alle nuove leve generazionali gli strumenti – ancora una volta, “culturali” – validi per contrastare sin dall’infanzia e dall’adolescenza le bieche strategie invasive della mafia nei tessuti altrimenti sani della società.

Ed era anche questa la missione che nella loro quotidianità professionale si erano dati quei giornalisti, quei cronisti i cui taccuini sono stati per sempre stracciati, assieme alla soppressione violenta delle loro esistenze, da parte di esecutori e mandanti di efferati delitti, compiuti nel nome della peggiore violazione dell’umano diritto a scrivere e parlare in libertà. Nuccio Anselmo li ricorda uno per uno nel suo saggio, quasi a voler scandire nella successione drammatica dell’elenco la denuncia dell’ingiustizia patita: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Giuseppe Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano. E insieme con loro, il piccolo Giuseppe Sottile, ucciso a Milazzo per errore dalle cosche, che volevano invece sopprimere il padre. Una morte dimenticata – non una lapide, non una via – a testimonianza di come non sempre la società civile si dimostri attenta e sensibile alla problematiche mafiose, nel ritorno ciclico ma estremamente penalizzante di quella strisciante rassegnazione, la cui traccia è tanto nelle origini stesse del fenomeno, tanto nella sua atavica percezione collettiva.

Anselmo narra di esperienze sul campo, preoccupandosi sempre di sottolinearne il carattere di rituale quotidianità, e non certo di eccezionale atipicità. Dal momento che dovere del giornalista rimane sempre e comunque – anche di fronte alla minaccia e alla violenza – quello di raccontare le notizie, di riportare i fatti; anche se soprattutto se ciò cospira a sconvolgere gli equilibri costituiti, e retti dai tipici compromessi del malaffare.

Quelli che anche i viaggiatori del diciannovesimo secolo avevano intuito, lasciando in eredità ai loro successori del Novecento un’immagine dell’isola bella di fuori e marcia di dentro. Secondo le testimonianze riportate da Amelia Ioli Gigante, in un’idea di dialettica tra individui e territorio che esula dal romantico isolamento degli intellettuali, e prefigura la loro diretta esposizione nell’avanguardia della lotta per i diritti civili. Rappresentati e difesi dalla Chiesa, secondo Francesco Michele Stabile, con un’intensità variabile fino alle chiare ed esplicite prese di posizione del Concilio e alla storica reprimenda di papa Giovanni Paolo II dai templi di Agrigento. E comunicati attraverso l’arte cinematografica in quella che secondo l’analisi puntuale di Francesco Gulletta diviene quasi da subito una meritoria opera di sensibilizzazione, soprattutto nella mai sufficientemente intensa raffigurazione del dramma nel resto del Paese e nei contesti più distanti del mondo progredito. Dove l’immagine della Sicilia risulta ancora sfumata nei suoi contorni autentici da stereotipi e riserve mentali.


(*) Articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud di Messina il 4/2/2011