PIRANDELLO E IL RISORGIMENTO FAMILIARE di Ubaldo Riccobono

Il padre di Pirandello, Stefano

 

Pirandello definisce I vecchi e giovani il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso, ov’è racchiuso il dramma della sua generazione. E in effetti, in questa poderosa opera largamente autobiografica – come ebbe a rilevare Leonardo Sciascia in Pirandello e il pirandellismo – emerge tutta l’amarezza per il Risorgimento tradito; un Risorgimento per lo scrittore  intriso di memorie, di fatti e di sentimenti familiari, rivissuti sin dall’infanzia attraverso le parole del padre Stefano, carabiniere garibaldino, e della madre Caterina Ricci Gramitto, che a soli tredici anni, con tutta la famiglia, assistette impotente al dramma del padre Giovanni, condannato ad espatriare dai Borboni nell’esilio di Malta.

Nella novella Colloqui coi personaggi il fervente spirito patriottico della famiglia Ricci Gramitto viene rievocato dalla madre con accenti drammatici, nel contrasto potente tra la bellezza dell’isola maltese “con quel golfo grande grande, d’un azzurro aspro, luccicante d’aguzzi tremolii”, del paesello bianco di Burmula,, “piccolo in una di quelle azzurre insenature”, e il cordoglio senza fine del padre di non poter vedere per la Sicilia il giorno della vendetta e della liberazione: stato d’animo che lo consunse a poco a poco a soli 46 anni.

Ci chiamò tutti attorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915).

Il nonno dello scrittore, Giovanni Battista Ricci Gramitto, avvocato di Girgenti, aveva pagato con l’esilio forzato e la morte di stenti per essere stato uno dei massimi esponenti dei moti rivoluzionari del 1848-49 a Palermo – primo evento rivoluzionario in Europa – e per questo non era rientrato nell’amnistia del general perdono del Borbone, unitamente ad altri 42 esclusi: 1) D. Ruggero Settimo; 2) Duca di Serradifalco;  3) Marchese Spedalotto; 4) Principe di Scordia; 5) Duchino della Verdura;  6) D.Giovanni Ondes; 7) D.Andrea Ondes; .) D. Giuseppe La Masa; 9) D. Pasquale Calvi; 10) Marchese Milo; 11) Conte Aceto; 12)  Abate S. Ragona; 13) Giuseppe La Farina; 14) D. Mariano Stabile; 15) D. Vito Beltrani; 16) Marchese di Torrearsa; 17) Pasquale Miloro; 18) Cav. D.Giovanni S.Onofrio; 19) Andrea Mangerua; 20) Luigi Gallo; 21) Cav. Alliata; 22) Gabriele Carnazza; 23) Principe di S.Giuseppe; 24) Antonino Miloro; 25) Antonino Sgobel;

26) D. Stefano Seidita; 27) D. Emmanuele Sessa; 28) D. Filippo Cordova; 29) Giovanni Interdonato; 30) Piraino di Milazzo; 31) Arancio di Pachino;  32) D. Salvatore Chindemi di Catania;  33) Barone Pancali di Siracusa; 34) D. Giuseppe Navarra di Terranova; 35) D. Giacomo Navarra di Terranova; 36) D. Francesco Cammarata di Terranova; 37) D. Carmelo Cammarata di Terranova; 38) D. Gerlando Bianchini di Girgenti; 39) D. Mariano Giojeni di Agrigento; 40) D. Francesco Giojeni di Girgenti; 41) D. Giovanni Gramitto di Girgenti; 42) D. Francesco De Luca di Girgenti; 43) D. Raffaele Lanza di Siracusa.

Morto il padre, la famiglia di Caterina aveva fatto ritorno in patria, in casa di quello zio che l’aveva mantenuta durante l’esilio a Malta, quello stesso zio canonico che era stato costretto a cantare controvoglia alla Cattedrale il Te deum di ringraziamento per il ritorno al trono di Ferdinando II di Borbone, mentre il fratello prendeva la via dell’esilio.

Ma l’insofferenza alla tirannia del Borbone continuava ad essere viva e, come una vera ossessione,  non risparmiava nessuno dei discendentii della famiglia Gramitto, uomini e donne, fedeli al ricordo paterno e al richiamo della patria:

Eh sì, troppo veramente mi doleva d’essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii, quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il mio più piccolo fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al Presidio borbonico, nella stess’ora che a Palermo un altro dei miei fratelli doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici!” (Colloquii coi personaggi, novella, agosto-settembre 1915)

Mentre alla Gancia di Palermo il fratello di Caterina, Rocco Ricci Gramitto, si salvava a stento, a Girgenti l’altro fratello, Innocenzo, issava il tricolore, mettendolo nel pugno di una statua sulla facciata della chiesa del Purgatorio, come ricorda tuttora l’iscrizione di una lapide.

Nell’aprile 1860

animosi girgentini del Risorgimento

guidati dalla profonda anima religiosa

di nostra gente

issavano per la prima volta

il vessillo della Patria

in pugno a questa statua

sul fronte sacro di questo tempio

all’ombra della Croce.

L’anima di questa nuova rivoluzione era stato il siciliano Francesco Crispi, il quale, già a Napoli, dove esercitava l’avvocatura, aveva fatto da tramite tra i patrioti napoletani e quelli siciliani. Allo scoppio dei moti del ’48 (12 gennaio) Crispi aveva fatto parte del Comitato di Guerra, risultando poi eletto deputato alla Camera dei Comuni. Fallita la rivoluzione, nel ’49 era andato poi esule in Piemonte, venendone però espulso nel 1853, costretto quindi ad espatriare a Malta. Ma anche da Malta veniva cacciato, riparando precipitosamente a Londra e quindi a Parigi, dove riuscì a tenere i collegamenti con Mazzini e Rosolino Pilo. L’insurrezione in Sicilia era stata concordata con il Mazzini, il quale a sua volta l’aveva studiata nei minimi dettagli con Garibaldi. Doveva trattarsi di una rivoluzione repubblicana e, per questo, Crispi si era recato in Sicilia, in gran segreto, già nel luglio-agosto del 1859, al fine di poter preparare il terreno. Sarebbe iniziato tutto dal convento della Gancia di Palermo, con l’intento di incendiare, per farle sollevare, tutte  le popolazioni del Sud fino a Roma. Tuttavia, il fallimento dell’impresa non impedì a Garibaldi di partire da Quarto, convinto in ciò da Crispi che, ottenendo l’assenso tacito dei Savoia,  aveva perorato la spedizione come l’ultima chance che si offriva per svincolare il sud dal giogo dei Borboni.

Ai garibaldini, partiti da Quarto, si unirono i patrioti siciliani, tra cui il padre dello scrittore e gli zii Rocco e Vincenzo, i quali,  tutti, parteciparono, l’anno successivo, all’ulteriore spedizione garibaldina, conclusasi infaustamente all’Aspromonte. Lo zio Rocco per primo soccorse Garibaldi ferito e raccolse lo stivale del generale, che oggi si trova al Vittoriano di Roma, dono della famiglia Ricci Gramitto..

Ma anche il padre dello scrittore fu un entusiasta garibaldino della prima ora, arruolandosi tra i carabinieri e marciando al fianco del generale, seguendolo dalla Sicilia fino a Napoli e successivamente nell’infausta impresa dell’Aspromonte. Durante l’epopea garibaldina, Stefano Pirandello aveva conosciuto Francesco Crispi – di cui sarebbe divenuto poi un grande elettore – e il futuro cognato Rocco Ricci Gramitto. Le parole della madre:

La madre di Pirandello, Caterina Ricci Gramitto

Stefano Pirandello e Rocco Ricci Gramitto s’iscrissero alla Massoneria, di cui facevano parte come dirigenti Garibaldi e Crispi, e furono in corrispondenza con il Generale. Subito dopo l’Aspromonte, Rocco Ricci Gramitto aveva inviato una lettera all’Eroe, chiedendo notizie sul suo stato di salute e dedicandogli dei versi. Il generale aveva risposto:

Caro Gramitto accetto riconoscente la dedica dei Vostri bei versi e ve ne ringrazio; Voi con la mente e col braccio avete mostrato di qual santo affetto amate la Patria. Gradite una mia stretta di mano, e tenete lo stivale che raccoglieste in Aspromonte per memoria del Vostro Giuseppe Garibaldi

Anche il padre dello scrittore scrisse all’Eroe una lettera di augurio per la guarigione e ne ebbe riscontro:

Signor Pirandello, Vi ringrazio dell’affettuosa memoria che mi serbate. La mia salute va sempre meglio ed io conto di guarire presto. Dite ai vostri compaesani che abbiamo fede nei destini dell’Italia, dessi sono maturi e presto ci troveremo ancora sulla via di Roma e Venezia. Vostro G. Garibaldi”.

Ma se il fervore patriottico dei genitori rivive nella premessa de I vecchi e i giovani a loro dedicata (Ai miei vecchi genitori/ perché di cuore e di mente/ più giovani di me/ nella festa delle loro Nozze d’oro/ 28 novembre 1863-1913/ quest’opera, in cui i loro nomi/ Stefano e Caterina/ vivono eroicamente/ o.d.c. Luigi Pirandello), il romanzo costituisce la dimostrazione palese di un Risorgimento che tradì le attese della Sicilia – e del Sud –  ad opera di quegli stessi personaggi che ne avevano rappresentato le istanze, primo fra tutti quel Francesco Crispi che aveva propugnato la repubblica ed era sceso a patti con il Re.

La svolta per la struttura del romanzo furono i fatti del 1893-1894, allorquando violente insurrezioni contadine, in tutta l’Isola, erano sfociate nel sangue, ed avevano coinvolto drammaticamente l’organizzazione dei Fasci Siciliani, che nel maggio del 1893 avevano ottenuto, con i patti di Corleone, notevoli miglioramenti dei contratti agrari.  I fasci siciliani avevano squassato anche la città di Girgenti, dove molti pagarono con il carcere e il lontano cugino dello scrittore, Francesco De Luca, fu salvato grazie all’intervento della famiglia Pirandello. Le premesse di questi drammatici eventi, sedati duramente da un figlio dell’isola e patriota, Francesco Crispi, sono racchiuse tutte  nelle parole di Corrado Selmi:

“…ci ostiniamo purtroppo a voler essere ombre noi, qua, in Sicilia. O inetti o sfiduciati o servili. La colpa è un po’ del sole. Il sole ci addormenta finanche le parole in bocca! Guardi, non fo per dire: ho studiato bene la questione, io. La Sicilia è entrata nella grande famiglia italiana con un debito pubblico di appena ottantacinque milioni di capitale e con un lieve bilancio di circa ventidue milioni. Vi recò tutto il tesoro dei suoi beni ecclesiastici e demaniali, accumulati da tanti secoli. Ma poi, povera d’opere pubbliche, senza vie, senza porti, senza bonifiche, di nessun genere. Sa come fu fatta la vendita dei beni demaniali e la censuazione di quelli ecclesiastici? Doveva essere fatta a scopo sociale, a sollievo delle classi agricole. Ma sì! Fu fatta a scopo di lucro e di finanza. E abbiamo dovuto ricomprare le nostre terre chiesastiche e demaniali e allibertar le altre proprietà immobiliari con la somma colossale di settecento milioni, sottratta naturalmente alla bonifica delle altre terre nostre. E il famoso quarto dei beni ecclesiastici attribuitoci dalla legge del 7 luglio 1866? Che irrisione! Già, prima di tutto, il valore di quei beni fu calcolato su le dichiarazioni vilissime del clero siciliano, per soddisfar la tassa di manomorta; e da questo valore nominale, noti bene, furono dedotte le percentuali attribuite allo Stato e le tasse e le spese di amministrazione. Poi però tutte queste deduzioni furono ragionate sul valore effettivo e furon sottratte inoltre le pensioni dovute ai membri degli enti soppressi. Cosicchè nulla, quasi nulla, ha percepito fin oggi i nostri Comuni. Ora, dopo tanti sacrifici fatti e accettati per patriottismo, non avrebbe diritto l’isola nostra d’essere equiparata alle altre regioni d’Iralia in tutti i benificii, nei miglioramenti d’ogni genere che queste hanno già ottenuto? (I vecchi e i giovani, romanzo, 1913)

L’Unità d’Italia non fu un affare per la Sicilia, anzi fu l’inizio di nuove ingiustizie per la gente del Sud, tradita dai suoi stessi figli, coinvolti nelle beghe di palazzo e nella corruzione dello Stato centralizzato (scandalo della Banca Romana). E tale disillusione, a causa di uno Stato sordo alle istanze dei figli migliori, traluceva ancora nel 1910 dalle semplici parole del padre Stefano da una lettera scritta alle sue nipotine, figlie della primogenita Rosolina:

Mie care nipotine, dovete sapere che i Carabinieri Genovesi erano esclusivamente comandati dal Generale Garibaldi, ed il vostro vecchio nonno ebbe l’onore d’appartenere a questo Corpo scelto che pagò sempre con usura il suo tributo di sangue! Ora il governo dell’ineffabile Giolitti ci ha ricompensati con una pensione di 25 centesimi al giorno dopo trascorsi 49 anni! Però la nostra ricompensa, più che dai 25 centesimi l’abbiamo ricevuta dalla nostra coscienza…”.